Caro Marco

Caro Marco,

Scusa il ritardo

Nell'asilo balordo di anime varie che belano inferme in questa prigione-giardino, a volte, lo sai, c'è più tempo per inghiottire che per parlare. Perfino ascoltare sembra un nettare raro, abdichiamo alla nostra vista appannata mentre la Bellandi beffarda impera con la sua religione. Un dizionario impazzito vorrebbe distoglierci dalla tragedia degli "assenti annunciati, placare la crescita inesorabile di Onorato, approdare ad una definizione del dramma di Barbaccia. In realtà, a volte, un banco vuoto accarezza gli occhi di tutti, nessuno di noi ama cimentarsi con questi "disagi", non ci sono voci nel vocabolario, non c'è correzione possibile con questi residui, appelli, insubordinazioni. Anche per questo, ieri sera ì, guardando Paolini mi sono lasciata andare ad un pianto inedito e consolatorio. Mi interessano, alla fine, solo gli assenti. E'vero di loro che sconfino irragionevolmente, rinunciando a priori ad ogni comunicazione possibile. "Non dimenticate Amrech"- di nuovo e quanto mi preme e mi premeva, utilizzando una lingua che però non medica, non interviene, non agisce, non mendica risposte. Dimenticata la foto del bambino cancellato, ne rimane la cella, un residuo di respiro. Resta il vizio ineluttabile di accettarsi balbuzienti, resta la carne tutta intera accerchiata dalla latitanza della lingua, che facilmente traduce la memoria, ma troppo spesso trascura l'alito, il fiato. Perchè a rinunciare a certi residui di organicità, disseccare il plasma, approntare strutture, affretta il tempo per "chiudere"- invece non c'è proprio niente da capire. Bisognerebbe entrare nella stanza di Amrech, nelle lenzuola dove è migrato, come si accarezza il nido di un uccellino. Così Amrech centra con il tuo lavoro. Centrano gli assenti -Che però lasciano un appello ai visionari. Il collegamento è sempre quello di una corporeità che tanto più si dissolve, tanto più preme. Tanti Amrech in cella, quanti invincibili insetti premuti al suolo. Le celle del manicomio private appena dalla presenza degli abitanti; bisogna accedere agli spazi prima che siano definitivamente abbandonati, bisogna concentrarsi in certo odori. Se non ci sono impronte ed i corpi sono stati portati via è necessario non anestetizzare i luoghi, non bisogna dare loro nomi, bisogna assolutamente nominare. Ecco gli insettari -Ne abbiamo bisogno- Non sono segni o ideogrammi- Un gonfiore impercettibile, un lievito li enfia come pane, ne fa "segni abitati"- contengono ancora la flagranza di quell'abbattimento (non rimane che ucciderne altri allora?), un vapore, un residuo, permette di chiuderli senza selezionarli. Siamo dentro una migrazione-letargo dove ogni struttura si allenta e si ammorbidisce. Non è la memoria che ci fa ritornare, mentre stiamo scomparendo. Le celle, poi, si approfondiscono, negano di essere molte, più d'una, all'interno vi si consumano presenze, alfabeti per nulla purificati, ma ancora infetti delle balbuzie del fiato. Un plasma ancora la dissolvenza, ad un'organicità che coagula, accudisce, trattiene in profondità qualcosa di ancora fecondo, perchè niente ci lascia davvero. Ed è questa permanenza che restituisce eticità che deteriora il grafismo, l'indispone non lo riduce solo ad alfabeto, argomentandolo di un vissuto indisponibile alle parole; così, si guardano in faccia uno per uno, gli insetti, per una densità che cancella, senza eliminare. Per un tepore ancora intatto, prima e dopo il disfacimento. Questi "prigionieri" prima di essere inghiottiti in controluce avanzano alla superficie con l'insistenza di certi suoni muti, con il perenne balbettio di ogni sostanza migrante. E' inevitabile esistono o sono esistiti, custodiscono un dolore, sono dentro un reliquario dove le ossa, le impercettibili evidenze scheletriche si enfiano ombratili, meste, dilatate, pronunciando una commozione possibile al margine ed al limite del reale. E' quello di cui ci si accorge improvvisamente e che il bambino invece non ha bisogno di sapere. Quello che nel millepiedi è asserzione qui è invocazione, quello che nel millepiedi è rapido e rapito, qui ha bisogno di un tempo di decantamento. Il millepiedi nel frattempo ha reso la sua esistenza possibile: e la sua memoria ora incarna le membra improbabili, unge i frammenti ossei dilavati e acerbi, emette residui sfaldandone i segni, l'umori, sforzandone l'unicità in molteplici prospettive. Così negli animali l'attesa provoca abbandono. La struttura di nuovo si allenta, si allontana, si scioglie ammorbidisce l'imperio del filo che fallisce la geometria. Fallisce la possibilità di dirsi nello spazio con questa lentezza. Fallisce la possibilità di un giro di volo. Tra un nodo e l'altro, nell'immobilità appena appresa, lo spazio è infinito e impraticabile. E'un esistere in forma di danza, dove nel segno si è rappreso un plasma strano che esclude le tensioni, dove tutto si rallenta spesso per scendere, sfiorire. Ma sempre il segno è nutrito, fino a che l'alienazione del costruire, la rete contiene dentro di se qualcosa che non può dissecarsi; il filo introduce nell'aria un discorso disarticolato, la cui incertezza si consegna spesso alla grazia di galleggiamenti e cadute, storpiature, filigrane stordite, passi da idiota -Niente che scorra senza doversi piegare. Quanto vi è di goffo appartiene ad un'ultima articolazione della bestia muta. Il viaggio dell'animale nello spazio lo priva di qualsiasi comportamento, nega ogni forma di esistenza, di sguardo. Ciò che rimane non è nemmeno l'ombra, tutto si riduce ad un'ostinazione ad un dar vita "all'assente" legando, annodando dentro l'aria il suo corpo, deprivato ma non del tutto stente, indugiante in una circolazione sanguigna che il filo misteriosamente trattiene, senza rivelare la natura dei ricami del plasma. L' innominabilità di ogni figura giace nel tragitto della sua rete. L'assente non solo è assente, ma irriconoscibile ed immobile. Se si vuole richiamare ad una qualsiasi vita la bestia si deve ripercorrere cosa ha fatto la mano. Contare l'avvolgere. Sentire i nodi. E'necessario rinunciare agli occhi della bestia, varcare una soglia inutile dove il ghepardo esiste e basta, perfino nella perdita del suo nome. Non c'è più aggressione le bestie molli nelle reti hanno perso le fauci, rallentano la corsa; eppure in questa perdita insensata di vitalità che mette il corpo della natura dentro una rete vi è un'arresa indomabile."L'inutile"si afferma nel suo sangue vibratile, tutto quanto è di mancante e cancellato riaffiora dentro quel vuoto della rete, nulla è più necessario. Rimane come una movenza, un adagio che comunque prosegue sottraendosi alle nostre proteste. Accettare che il più sia celato, o quello che credevamo necessario sia scomparso ci piega a un'accettazione. La bestia ci restituisce lo spazio per una sapiente idiozia, per un incauto procedere nello spazio e nel tempo. Benedetta nel suo essere senza cervello, nel suo incedere senza avanzare, maldestramente possibile nel suo ricamo vuoto; deossificata e interna la bestia ci chiede per apparire in un fulminio atto di innocenza. L'appello sta tutto nella sua "mancanza" nella sua decisione di galleggiamento. Dove la bestia si nasconde e si ritrae, possiamo iniziare a conversare con gli animali. Abdicare ad un linguaggio muto, silente, consapevole delle sue deficienze -incentrato sulle sue deficienze- Perchè mi pare, in questa "demenza", si celi, l'unico approccio etico possibile. Altro che libertà -nessuna libertà all'interno del tirocinio di un artista. Nessun virtuosismo in questo essere perennemente senza parola; eppure avvertire un'urgenza, una dolorosa e costante commozione-compassione, per quanto esiste; un 'inspiegabile necessità di tradurre ciò che non può appartenere alla consapevolezza. Come si può essere liberi nel sentire tutto che ci circonda è vivo; e dov'è la distanza che ci permette di comunicare? L'artista ascolta un linguaggio che non parla. Però come ti dicevo , una profonda commozione è possibile quando ci sorprende una forma, che abbiamo sperato, un immagine che sentiamo appartenerci anche se non è nostra. Così scusa la lettera delirante e grazie per il tuo lavoro.

Chiara

Agli artisti , comunque bisogna ricordare sempre di "Non dimenticare Amrech"