capita ancora con una certa frequenza

LA MATERIA E LA FANTASIA

Capita ancora con una certa frequenza, anche se gli anni duemila hanno già percorso una parte del loro cammino, che, soprattutto il pubblico meno acculturato, al varcare le soglie di una mostra di arte contemporanea, provi un senso quasi angoscioso di smarrimento all’incontro di opere – che si tratti di pittura o scultura è un fatto del tutto secondario – le quali poco hanno a che vedere con la realtà intesa come raffigurazione apparentemente calligrafica di questa stessa.

Eppure già sugli inizi del secolo XX si stavano profilando scenari artistici palesemente volti ad infrangere le quasi sacre barriere del “bello comprensibile da tutti” e “per tutti”.

Del resto questa sorta di rivoluzione che non ha precedenti nel lungo evolversi dell’arte attraverso i secoli ed i millenni non riguardò il solo campo artistico inteso in senso stretto. In musica Schoenberg o Webern, in narrativa Joyce o Kafka ed in poesia Eliot o Pound, per citare alcuni nomi tra i più noti, avevano operato una rivoluzione analoga a quanto andava accadendo per l’arte figurativa tanto che mai termine diverrà, nel tempo, più nebuloso e sovente equivoco.

Il mondo della creatività si divise perché, appunto, in parallelo con coloro che continuarono ad affidarsi a moduli tradizionali e saldamente collaudati, ci fu chi volle avventurarsi per nuove strade avvertendo come esauritasi una concezione dell’arte che stancamente (ma non sempre) continuava ad attingere ispirazione da stilemi da troppo tempo esauritisi. E, per quanto riguarda questa seconda categoria di sperimentatori, esisteva la profonda convinzione che il nuovo secolo, il Novecento, aveva distrutto per sempre nelle trincee del Carso e sui campi insanguinati della Francia del nord ogni residuo di ciò che avevano rappresentato gli ideali politici e sociali di pretto stampo ottocentesco. Come le cose siano andate in seguito è cosa nota a chiunque.

Da questo sgretolamento, tornando al campo della figurazione, nasce l’esigenza di sperimentare nuovi materiali diversi dal pennello, l’olio, il bronzo e quant’altro sino ad allora era stato comune patrimonio dell’artista tradizionalmente inteso.

Marco Acquafredda, giovane e valente artista con alle spalle solide basi accademiche – la furbizia in questo campo raramente paga –fa parte della schiera di coloro, e sono molti, che nella ricerca di nuove strade da percorrere, hanno trovato spunti molteplici e nuovi stimoli per raffigurare la realtà o quantomeno, il loro personale concetto di realtà visiva.

Come per altri artisti di similare vocazione ciò che meraviglia in Acquafredda è la coerenza stilistica che sottende ad ogni suo lavoro tanto che in opere realizzate con i materiali più eterogenei è sempre comunque ben individuabile una chiara e ben definita cifra stilistica.

Non quindi, per il nostro artista, una forsennata volontà incline a esaltare l’originalità fine a se stessa ma piuttosto la appassionata ricerca della multiformità del materiale usato e da piegarsi alla manifestazione di una poetica che in esso trova nuove e insospettate qualità espressive. Acquafredda infatti possiede il raro dono di poter guardare oltre la banalità dei materiali da lui quotidianamente impiegati. E, ben s’intende, difficilmente ascrivibile alla categoria di coloro definiti correntemente “minimalisti”.

Minuscoli brandelli di materie plastiche, spilli, frammenti lapidei di ignota e trascurabile provenienza, conglomerati vetrosi, carta, carte argentate ed altro vengono così ad assumere nuova e mai supposta dignità nel momento in cui l’artista decide di racchiuderli in parallelepipedi quasi a significarne una preziosità che, fuori da codesti minuscoli totem, non sarebbe loro propria. Ed è questo un ulteriore segno che l’artista, quello autentico, ha uno sguardo che va ben oltre i nostri limitati orizzonti quotidiani.

Ma non ci si ferma qui. Al di là degli effetti coloristici perseguiti da Acquafredda, vi è in lui una meticolosissima attenzione volta a scandire la successione dei piani tanto che ci accade spesso di percepire profondità inusitate in ciò che ad una verifica tattile si rivela invece di trascurabile esiguità. Vi è inoltre, di qualunque opera si tratti, una ricerca di luci che vanno oltre i tradizionali punti di vista, quelli dell’osservatore e quelli propri interni all’opera stessa. Acquafredda, con minuzia quasi certosina e grazie alle trasparenze peculiari di tanti materiali da lui impiegati, raggiunge esiti preziosi – ovviamente nelle opere tridimensionali – scaturiti dalla luce naturale proveniente dal retro, una sorta di caleidoscopio non dovuto alla casualità.

A quelli che forse impropriamente ho definito “totem” si accompagnano, e non sono poche, opere di segno più dichiaratamente grafico o pittorico. Il nostro artista che predilige con frequenza il formato quadrato a quello tradizionalmente rettangolare, anche in queste mostra la sicurezza di una raggiunta maturità espressiva. E sono, allora, corrugamenti ondivaghi dai colori caldamente bruciati o minuscoli, godibilissimi alfabeti ignoti quasi assimilabili, seppur alla lontana, a certe opere di Capogrossi.

Il percorrere quindi con occhio vigile le realizzazioni del nostro artista ci si rivelano mondi felicemente conclusi in loro stessi ma, purché si ponga con animo alieno da qualunque pregiudizio, possibili di ulteriormente aprire le nostre menti troppo sovente preda di inutili e pigre supponenze.

                                                                                         Ranieri Carli, luglio 2016